Domani si torna a casa. Tre settimane a Fuerteventura e mi sento più atleta di quanto non lo sia mai stata in tutta la mia vita. Ho fatto il doppio tutti i giorni, o nuoto e corsa, o bici e palestra, o palestra e nuoto, un allenamento continuo. Ho lottato contro il vento delle Canarie (mai sottovalutarlo!) e contro l’abbronzatura da ciclista, sono riuscita a prendere più e più volte sonno alle 21.30, e ho resistito a comprare qualsiasi souvenir (la calamite di Fuerte le avevo già prese lo scorso anno). Poi ovvio, le differenze tra gli atleti veri e quelli finti (o le morose degli atleti in prestito allo sport per qualche mese) le si vedono nei momenti di stacco tra un allenamento e l’altro. Quando loro dopo colazione, si chiudevano in camera a riposare, sfiniti dal lungo di corsa in pista delle 8 del mattino, io mi mettevo il costume e andavo fuori in piscina. Rientrata dalla bici, e mangiato un biscotto al volo, stessa cosa: crema solare, costume, Kindle, e sdraio a bordo piscina. Le atlete serie le vedi in vasca, col costume intero, incuranti del segno dell’abbronzatura; io il primo giorno ho voluto provare a nuotare addirittura col costume a fascia. Speravo fosse più confortevole, ma mi sono dovuta rassegnare a mettere quello sportivo già dalla volta successiva; rigorosamente due pezzi però. Le vedi anche a colazione, le atlete serie, che mangiano un sacco di frutta, e uova e avocado… e io con la Nutella.

Comunque, qui è praticamente impossibile non fare sport, quando sei dentro un villaggio fatto apposta per i triatleti, con tutto a disposizione (piscina, palestra), con un sacco di sentierini per la corsa e delle strade super per pedalare; e poi vedi intorno a te mamme triatlete in forma invidiabile, con figli a seguito, che arrivano a colazione con le scarpette pronte per inforcare la bici appena finito di bere il caffè; o maschi muscolosi, di tutte le età, che mettono come primo allenamento il nuoto alle sei e mezzo del mattino. 

Fin dal primo giorno, poi, mi sono dovuta rassegnare ad una cosa che mi ero sempre rifiutata di fare: bere dalle borracce. Quando Ale mi diceva: “Ho io l’acqua, bevi dalla mia borraccia”, la mia risposta era una citazione del bradipo Sid, dell’Era Glaciale: “No, grassie, preferisco vivere!”. L’idea di sentire quel gusto di plastica in bocca (lui sostiene che vada via dopo qualche utilizzo, ma io continuo a pensarla diversamente), oltre al fatto di dover bere da quel beccuccio che, è risaputo, raccoglie polvere, sporco, smog, e le peggio cose dai giri in bicicletta, non mi ha mai elettrizzata. Anzi, l’ho sempre accuratamente evitato. E niente, qui mi è toccato. Se ripenso a come mi ci sono attaccata, a quel beccuccio, durante il primo giro in bici, che tra stanchezza e caldo mi sarei bevuta anche la borraccia del primo ciclista che mi passava vicino, o a come la facevo fuori appena tornata dalla corsa, beh… Alla fine in quei casi dell’odore di plastica effettivamente non te ne accorgi neanche. L’inizio della mia metamorfosi in atleta. Se un giorno le mie colleghe a scuola mi vedranno tirare fuori dalla borsa la borraccia, anziché la mia solita bottiglietta di acqua naturale, lì però dovranno fermarmi prima che sia troppo tardi…

Il mio momento clou del training camp a Fuerte con la JFTcrew (cioè il gruppo internazionale che si allena con Joel Filliol, CT della Nazionale Italiana), è stato mercoledì, alla fine di un giro in bici particolarmente impegnativo. Avevo fatto i primi 45’ pedalando pianissimo, le gambe non giravano, son riuscita ad andare piano anche in discesa. Ritenendo che fosse dovuto alla stanchezza accumulata, ho optato per non arrivare all’ora, prima di girarmi e tornare indietro (cosa che non ero sicura di riuscire a fare, valutando la forza delle mie gambe in quel momento); se c’è una cosa che un atleta deve imparare fin da subito, è che costi quel che costi, in qualche modo a casa ci devi ritornare. Già mi vedevo a chiamare Ale, e a sentirmi dire: “Dai Vale, un po’ alla volta, e torni a casa, ce la fai sì. Si porta a casa il lavoro”. Quindi mi sono fermata, riposata qualche minuto, girata e ripartita. Quale sorpresa nello scoprire che tutta la fatica fatta fino a quel momento era dovuta solo al vento contrario! Sono ripartita a tutta, a 35km orari, raggiungendo il record velocità in discesa di 57km/h (è parecchio inquietante quando sperimenti l’alta velocità in bicicletta le prime volte). In mezzora ero a casa. Aiutata anche dal fatto che, negli ultimi 10 minuti, non sono stata sola.

Mi ero appena fermata all’inizio della ciclabile, la mia ultima tradizionale sosta per bere e soffiarmi il naso prima di affrontare le ultime due salite per raggiungere il residence, quando mi sembra di sentire voci familiari. Quella di Ale in particolar modo. “Ma come?” penso, “ma non avevano due ore, dovrebbero essere a casa da almeno mezzora!” E invece no, erano tutti lì, un nutrito gruppo dei migliori triatleti e triatlete del mondo (più il fisioterapista), che mi salutavano e incoraggiavano. Li ho lasciati passare avanti, tranne Fabian che subito mi ha fatto: “Dai, andiamo”. No no, macché andiamo, tu sei pazzo, andate avanti voi, io vi raggiungo dopo, con calma. Invece alla fine son partita, in coda al loro gruppo, il che è stato anche occasione per una breve lezione sul cambio della bici, che avevo ripetutamente chiesto più e più volte ad Ale. “Hai visto che hai imparato da sola come funziona il cambio?”. Beh certo, se aspetto te. Comunque è andata alla grande, perfino su nella salitina più impegnativa, ho tenuto il ritmo con Ale che rideva e ogni tanto mi chiedeva: “Com’è? Tutto bene?”. Poi ad un certo punto mi ha fatto anche una domanda che richiedeva una risposta più articolata, al che gli ho risposto: “Possiamo parlarne tra 5minuti per favore, che ora sono concentrata?”.

CON ALE NON VALE, perchè nonostante da tre settimane io stia facendo vita da training camp, in tutti gli aspetti (quando sono venuti a fare il controllo antidoping a tappeto a tutti, una sera, mi han fatto la battuta che avrei dovuto farlo anch’io, così, per sperimentare davvero tutte le esperienze possibili), Ale mi dice che non posso essere considerata un’atleta finché continuo a fermami in bici per bere e a soffiarmi il naso con il fazzoletto di carta (anziché nella tipica modalità loro, con un dito a bloccare una narice e un bel soffio dall’altra). Ma vabbè, io e il mio fazzolettino ce ne faremo una ragione. 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *