Ieri sera sono andata a prendere Ale in aeroporto, dopo la gara di Abu Dhabi e un pit-stop in Sardegna. Arrivo alle 23 a Venezia. Mi viene in mente: come la prima volta in cui lo sono andata a prendere io, nel 2013. 

Sembra passata un’eternità, di sicuro sono passati innumerevoli viaggi da e per l’aeroporto. Quella volta, conoscendo il mio scarso senso dell’orientamento, mi aveva fatto una spiegazione dettagliata sulla strada che avrei dovuto fare per raggiungerlo. Essenzialmente il viaggio, da casa mia, consiste in: tangenziale- autostrada- tangenziale- aeroporto. Praticamente quasi tutto dritto. Ma io, ovviamente, ho sbagliato uscita. Ricordo benissimo che, ad un certo punto, ho visto una coppia al distributore e, rassicurata dal fatto che ci fosse anche una donna (alle fine, erano le 11 di sera, fermarsi da un benzinaio da sola non si sa neanche bene dove, poteva non essere una buona idea), ho chiesto loro informazioni. Cerco di non pensare a quanto mi possano aver preso per una rintronata neanche in grado di capire che l’aeroporto era l’uscita dopo. Ma io in quel momento non mi sentivo così in torto, mi sembrava tutto piuttosto complesso.

Qualche settimana dopo, sono andata di nuovo a prendere Ale; stavolta era pieno giorno. Forse ero meno tesa, forse mi sembrava più facile per averlo già fatto, chissà; fatto sta che, a pranzo con mio papà e mio fratello, con sicurezza ho detto: “Certo che, vedendola oggi, la strada per l’aeroporto è piena di cartelli, indicazioni, perfino a terra sulla strada ci sono; è a prova di idiota”. E mio fratello, serio: “Ti ricordo che tu, infatti, sei riuscita a perderti lo stesso”.

È sempre emozionante andare a prendere Ale lì. Di solito è il momento in cui ha fine un lungo periodo di lontananza, di qualche settimana, un mese. In questi anni ho potuto provare diversi stati d’animo. C’è stata la volta in cui sono andata a prenderlo incazzata nera, per non ricordo chissà quale motivo su cui avremmo dovuto riprendere a litigare il prima possibile, non appena fosse salito in macchina. La volta in cui sono andata preoccupata perché era caduto e si era fatto male; la volta in cui ero triste perché sarebbe ripartito subito, dopo pochi giorni. Il più delle volte, però, fortunatamente, ero solo felice: felice di rivederlo, di poterlo riabbracciare, di poterci parlare dal vivo, faccia a faccia, senza schermi dei telefoni o fusi orari che ci separassero. 

Poi, c’è da dire: non che i nostri saluti in aeroporto siano molto romantici. All’andata di solito è in ritardo, perciò “ciao, ciao, bacio, buon viaggio, e mi raccomando” (il “mi raccomando” ce lo diciamo a vicenda, ma racchiude un sacco di cose, tra cui principalmente un: “Fa’ il bravo”/“Fai la brava”). Quando ritorna, siccome siamo sempre nella zona 10minuti (…e se tu sei convinto di esserci dentro coi tempi ma la macchinetta ti ricaccia indietro il biglietto è sempre una gran scocciatura dover fare la retro, con le macchine dietro, andare a pagare, etc etc), e abbiamo da tirare giù i sedili, caricare valigia, zaino, bicicletta, i convenevoli come baci e abbracci passano in secondo piano. Anche se non ti vedi da un mese. La priorità è uscire dal parcheggio. Nel tempo ci siamo collaudati: io parto già coi sedili tirati giù, arrivo, scendo, apro la portiera dietro, lui nel frattempo ha aperto il bagagliaio, carica il trolley grande, io lo aiuto a tirare dento la bici, zainetto piccolo, faccio il giro e ho già la chiave pronta da passargli mentre lui dice: “Guido io”-che non ho mai capito perché, ma dopo un viaggio vuole sempre guidare lui. 

Il momento in cui ci diciamo: “Beh, ciao eh!”, e lui aggiunge: “Non mi dai neanche un bacetto?”, siamo già fuori dall’aeroporto. Questo solo le volte in cui non perdi il bigliettino del parcheggio che ti permette di uscire. Ahimè sì, è capitato anche questo (e non è stato una caso isolato), ma dopo la volta in cui mi è finito dentro i buchi dell’aria (e credo sia ancora là dentro, visto che ogni tanto esce un odore strano), ho ritenuto una scelta saggia fare il telepass e non avere più bigliettini che giravano pericolosamente.

E così, penso all’aeroporto, a questo posto che sa di partenze, di avventure, di vacanze, di nuove esperienze. Per noi spesso significa anche distanza, tristezza, c’è un momento quando lo accompagno, quando ci stiamo avvicinando, in cui lo guardo e penso: “Ecco, altri 5 minuti, e poi non lo vedo più per un mese…”. Per inciso, questo lo penso solo io che rimango qua, lui al massimo pensa a quanto è in ritardo, a cosa potrebbe essersi dimenticato, al “Chissà se mi romperanno per il peso della bici”… il viaggio di ritorno, dopo averno lasciato lì, sa sempre di tristezza, solitudine, lui dice che mi si riaccende la ferita da abbandono tutte le volte. Poi sai che, alla tristezza, corrisponderà altrettanta dose di felicità quando lo andrai a riprendere, dopo qualche settimana, e allora quando sei giù inizi ad assaporare e immaginare quel momento.

CON ALE NON VALE, però, perché dopo quella prima volta non m era mai più capitato… Ma ieri sera ho sbagliato di nuovo quella strada “a prova di idiota”. Ero persa nei pensieri, stavo cantando, fatto sta che ho perso lo svincolo giusto.

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