In questi mesi intensi e vissuti mi è mancato scrivere e pubblicare qui. Mi ero ripromessa di farlo già a settembre, invece poi sono stata presa dalle mille cose da fare e tutti i buoni propositi sono saltati. Ma ormai chi mi conosce un po’, dai social, dal mio libro, lo sa: scrivere per me è fondamentale. Le pagine dei miei quaderni sono andate avanti a riempirsi, e non poco direi, ma poi penso sempre che questo spazio, mio, unico, nato a fine 2017, può servire a qualcosa. Tendenzialmente, a comunicare. E in questo periodo credo che la comunicazione sia davvero un aspetto da non sottovalutare, un’azione di cui abbiamo particolarmente bisogno tra l’altro. Anche se siamo stati privati delle tradizionali modalità a cui eravamo abituati, anche se negli ultimi due anni spesso i video e le tecnologie hanno sostituito gli sguardi e gli incontri. All’inizio non mi pesava particolarmente. Forse, nella mia esperienza con Ale e con la nostra relazione spesso a distanza, ero già abituata a vivere e a far crescere una relazione anche attraverso video, ma diciamo che qui invece la differenza l’ha fatta tanto la durata. Ora siamo arrivati a due anni di pandemia. Due anni di mascherine, di distanze, di abbracci negati, di occasioni d’incontro sfumate. Due anni in cui i tuoi colleghi possono essere la tua salvezza, o il tuo peggior incubo, perché sono le uniche persone con cui ti è permesso stare, oltre alla tua famiglia, e di sicuro li vedi più dei tuoi più cari amici. 

Quanto mancano a me le mie due colleghe, che l’anno scorso sono state davvero la mia salvezza e tra le poche persone con cui sono riuscita a mantenere una relazione face to face fatta di presenza, comunicazione sincrona e non mediata, addirittura di fugaci contatti, se ci sfioravamo le mani passandoci il bicchierino del caffè della macchinetta. Si può arrivare a far caso a quando ci si sfiora ogni tanto per sbaglio? A quanto pare sì.

Me ne sono resa conto in questi ultimi mesi, quando anche questo tipo di contatti con i colleghi tramite il lavoro è venuto meno. Ovvio, sono molto grata di essermi potuta vivere la gravidanza a casa, fisicamente penso non sarei stata in grado di lavorare e soprattutto il rischio covid a scuola sarebbe stato molto impegnativo da reggere, anche psicologicamente. Però così le mie occasioni di relazione si sono ridotte ancor di più. Di carattere non sono una che necessariamente deve uscire e fare cose, sto bene anche con le mie poche persone intorno. Ma alla lunga si inizia a sentire, e diventa faticoso. Specialmente in questo ultimo mese, quando evitare il rischio contagio è diventato come una partita di pallaguerra, un continuo schivare e schivare, sapendo che la pallina può arrivare a colpirti da qualsiasi parte, da un pranzo coi tuoi genitori, a un abbraccio coi tuoi nipoti che vanno a scuola, a un caffè veloce preso con un collega. Io e Ale avevamo un solo, grande bisogno: vivere il parto e la nascita del nostro bambino insieme. L’unica cosa che poteva impedircelo? Il tampone in ingresso all’ospedale. Se uno dei due fosse risultato positivo, il risultato sarebbe stato un travaglio senza il suo supporto per me, e la perdita dei primi giorni di suo figlio per lui. Troppo grande e troppo importante tutto questo per non valere il sacrificio di isolarci da tutti e non vedere nessuno da dopo Natale fino alla nascita. Certo, pensavamo sarebbe avvenuta entro metà gennaio, invece il nostro “isolamento preventivo” si è prolungato fin quasi a fine mese. E non senza “intoppi”: abbiamo visto perfino le nostre famiglie solo all’aperto e tutti con le mascherine, in un paio di occasioni in cui dovevamo prendere delle cose che ci servivano (tipo il trio e la culla); per il resto, io ero tappata in casa, e Ale usciva solo per fare la spesa e andare in piscina. Ma la crisi di pianto alla notizia di un caso positivo in piscina, con cui lui aveva nuotato in corsia insieme, ovviamente non me l’ha tolta nessuno.

Accettato il fatto di non poter controllare l’incontrollabile, ho cercato di godermi gli ultimi momenti con il mio bambino nella pancia. Cercavo di fargli qualche video, durante le sue corse sfrenate, e intanto pensavo che mi sarebbe piaciuto avere le mani dei miei nipoti, degli zii, delle amiche, delle nonne, su questa pancia che si deformava senza sosta. Pensavo a quante persone avevamo promesso caffè, cene, aperitivi, che non eravamo stati in grado di fare. A quanti amici non mi avevano (e non mi avrebbero mai) vista con la pancia, almeno non questa prima ed entusiasmante volta.

Tutto questo non faceva che accrescere la mia voglia di relazione. Non sarà stata la stessa cosa, ma penso di non aver mai mandato così tanti e così lunghi messaggi vocali, su whatsapp, su Instagram, a chi anche non sentivo da tempo non per mancanza di interesse, anzi, ma per mancanza di tempo (o di memoria, perché poi io sono molto brava a dimenticarmi di rispondere alla gente, o a farlo dopo settimane). Quando Ale tornava dai suoi allenamenti spesso mi ritrovava nella stessa posizione in cui mi aveva lasciata, seduta sul divano, ma c’era una grande differenza tra passare ore sui social e usare quel tempo per mettersi in relazione con qualcuno. Mi sentivo carica, appagata, arricchita, e più felice. Certo, a volte c’erano impatti negativi sul mio umore, quando prendevo su di me “i mali del mondo”, e del mondo della scuola in particolare modo. Cercavo di dare supporto alle mie colleghe anche da lontano e senza poter far nulla di concreto per l’implosione su se stesso che il sistema scuola stava avendo a gennaio. Con loro che per prime mi dicevano di smettere di pensarci, di smettere di leggere articoli, commenti, post social, e concentrarmi su quel “piccolo cambiamento” che mi attendeva di lì a poco. 

E con questa riflessione, sulla comunicazione, sulle relazioni mediate, sulla lontananza fisica, sulla mancanza di condivisione e sul ruolo dei social, in cui invece si continua a convivere tanto male, voglio provare a dare il mio contributo, con qualcosa di più positivo, di sano, semplice ma reale. Continuo i miei racconti, semplici storie di vita vissuta, sperando che siano utili a chi si può ritrovare e rivedere, come è stato per il mio libro. Spero, così facendo, di aumentare anche di poco la quantità di condivisione, relazione ed empatia nella mia vita e in quella di chi vorrà, al di là delle limitazioni. Perché i limiti, reali o presunti, sono solo laddove noi li vogliamo vedere.  

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